bologna, 900 e duemila
un progetto di andrea adriatico
per teatri di vita
tre autrici, tre pezzi di storia, una città
scalinata del pincio
PORTA DELLA ROCCA OSTILE
di simona vinci
giardino del guasto
BO BOHÈME
di grazia verasani
torre degli asinelli
PER AMOR DEL CIELO
di milena magnani
per
anna amadori, rossella dassu, olga durano, angela malfitano, francesca mazza, eva robin’s, carolina talon sampieri, selvaggia tegon giacoppo
e per
anas arqawi, leonardo bianconi, gianluca enria, luca forestani, francesco martino, lorenzo pacilli, alberto sarti, davis tagliaferro
prodotto con la cura di stefano casi, daniela cotti, saverio peschechera, alberto sarti, corrado trincali
supporto tecnico di salvatore pulpito, rabii sakri
con il supporto tecnico di Protec Ambiente e Dynamo la Velostazione di Bologna, FRIDA’s Italian Flower Stores, Sanitaria S. Orsola, Ass. Il Giardino del Guasto, Legambiente Emilia-Romagna
produzione Teatri di Vita
con la collaborazione del Teatro Comunale di Bologna e Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, MiBACT
e Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
Nell’ambito di CONCIVES 1116 – 2016 Nono centenario del Comune di Bologna
Sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica
prima assoluta: Bologna, Scalinata del Pincio/Giardino del Guasto/Torre Asinelli, 15 maggio 2016
Al centro delle manifestazioni di CONCIVES 1116 – 2016 Nono centenario del Comune di Bologna è il teatro contemporaneo con Bologna, 900 e duemila, un progetto ideato e diretto da Andrea Adriatico per Teatri di Vita e disseminato in alcuni luoghi del centro storico.
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I tre testi, le fotografie e alcuni sguardi critici sono stati pubblicati nel libro Bologna 900 e duemila. Teatri di Vita nella città, ed. Pendragon (2023).
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Tre scrittrici della nostra città, Milena Magnani, Grazia Verasani e Simona Vinci, sono state invitate a riflettere su Bologna contemporanea e la sua memoria. Ne sono venute fuori tre opere, totalmente autonome, che interrogano il senso dell’essere “concives” dopo 9 secoli di storia, tutte con la regia di Andrea Adriatico: Porta della Rocca Ostile di Simona Vinci sarà alla Scalinata del Pincio, Bo Bohème di Grazia Verasani al Giardino del Guasto e Per amor del cielo di Milena Magnani alla Torre degli Asinelli.
Interpreti sono alcune tra le maggiori artiste della nostra città: Anna Amadori, Rossella Dassu, Olga Durano, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Eva Robin’s, Carolina Talon Sampieri, Selvaggia Tegon Giacoppo.
Bologna, 900 e duemila si offre come riflessione sulle “cuciture” in atto e in potenza tra passato, presente e futuro, nella nostra città, sospesa tra un 900 ancora infinito e un 2000 che deve ancora venire, con uno sguardo-dedica a un maestro teatrale, Leo De Berardinis (che nel 1987 portò a teatro Novecento e mille). Un inedito affresco che si pone di fronte ai cittadini come occasione di pensiero sul senso di essere “concives”, in un rinnovato spazio del teatro come agorà del XXI secolo.
Visioni critiche
Spetta al teatro, agli artisti, alle scrittrici, spegnere le ultime candeline di una torta grande come una città di nove secoli che ha il nome di Bologna. Nell’ambito di CONCIVES 1116 – 2016, Nono centenario del Comune di Bologna è andato in scena il progetto di Andrea Adriatico Bologna, 900 e duemila, una produzione Teatri di Vita con la collaborazione del Teatro Comunale di Bologna e Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, MiBACT.
Dal 15 al 22 maggio si festeggia Bologna penetrandola nelle piazze e attraversandone (non sempre sulle strisce) le strade, dalla Scalinata del Pincio alla Torre degli Asinelli, facendo sosta al Giardino del Guasto. Attraverso le voci di tre autrici, la città è raccontata e rivissuta attraverso molte lenti: filologia, cronaca e poesia s’intrecciano a racconto, arte e gastronomia, restituendoci il ritratto umanissimo di uno spazio-storia chiuso tra torri e portici, eppure inafferrabile. Attraverso la rievocazione di uomini e di donne, illustri o dimenticati, Bologna, 900 e duemila (che nel titolo richiama Leo De Berardinis e il suo Novecento e mille) celebra la città dal suo interno, con esercizi di memoria, molte rimostranze e qualche modesta proposta.
Alla Scalinata del Pincio, con lo sfondo arioso di un post-temporale nel tramonto (cosa può darci, una città dopo la pioggia…), è affidata l’apertura dello spettacolo, con Porta della Rocca Ostile. Il neoromanticismo di Simona Vinci, che intarsia di simbologie poetiche e reminiscenze letterarie il quotidiano (e viceversa), esplora qui come in altri suoi libri lo sbocciare di una giovane esistenza, una “creatura di luce” che è anche, e non solo, Bologna, femminina città dalla forma di cuore e di pugno. La storia dell’urbe-fanciulla (Selvaggia Tegon Giacoppo) rivive attraverso un coro-narratore-didascalia (Anna Amadori, Rossella Dassu, Olga Durano, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Eva Robin’s, Carolina Talon Sampieri): un serpentiforme epta-mèlos che nell’acceso lirismo rievoca Storia e narra vicende, contempla spazi o rivolta il pubblico, fronteggiando risolutamente il maschio di sempre (gli attori Anas Arqawi, Leonardo Bianconi, Gianluca Enria, Luca Forestani, Francesco Martino, Lorenzo Pacilli, Alberto Sarti e Davis Tagliaferro).
Rispetto ai pochi metri della scalinata, ben altre altitudini ci propone il pannello finale, realizzato sotto, sulla e nella Torre degli Asinelli. Con Per amor del cielo di Milena Magnani (che ha spesso raccontato nei suoi testi vite di emarginati e cronache di ingiustizie) ci troviamo in un vero e proprio scontro tra visioni della città, con il rifiuto di una verticalità tradotta in separazione architettonica e godimento aristocratico della città. Attraverso fumogeni, volantini e gomitoli in caduta libera (dall’alto e dall’altissimo), pernacchie e cori femministi ci riportano a pretendere (arrabbiandosi, se serve) un luogo a misura non solo di uomo, ma anche di donna. Lo spettacolo all’aperto mette a dura prova voci e corpi, ma i megafoni, i microfoni e l’arte (come quella di Francesca Mazza, capace di tenere insieme in una frase note stridule e snobismi aristocratici, senza cedimenti di volume) permettono al pubblico, anche quello di passaggio (vigili compresi), di partecipare alla conquista dello spazio.
Tra il preludio corale e l’invettiva finale, s’inserisce una delicata sonata a due, Bo Boheme, opera di una scrittrice abilissima nei dialoghi, Grazia Verasani, qui alle prese con un’ironica operetta morale che trova nel Giardino del Guasto l’ambientazione perfetta. Bologna viene qui raccontata attraverso l’incontro di due generazioni diverse, cittadini di epoche lontane accomunati dall’identico amore per la libertà e per la città; scandito da continui passaggi tra luce e buio, il dialogo si svolge all’interno di una sorta di centauro su non so quante ruote, compenetrazione tra una bicicletta e la sedia a rotelle dove Olga Durano, composta per forza, concentra tutta l’energia scenica dello scanzonato personaggio nella profondità delle vibrazioni a fior di microfono.
Nonostante la concertazione e la macchina scenica abbiano ancora alcune sbavature (ma sono le imperfezioni che sigillano di emozioni ogni debutto), emerge dal progetto (prodotto con la cura di Stefano Casi, Daniela Cotti, Saverio Peschechera, Alberto Sarti, Corrado Trincali e il supporto tecnico di Salvatore Pulpito, Rabii Sakri e Luca Zanna) la possibilità di far coesistere in un percorso coerente anime diverse della città e stili diversissimi di scrittura. Non solo spettacolo itinerante (che si snoda sotto gli occhi divertiti dei passanti, stupiti dalla processione di attrici e attori e trolley), ma nemmeno monumento transeunte: un attivo (se si esercita il pensiero in sguardo e ascolto) laboratorio di cittadinanza; laboratorio provvisorio, come è provvisorio quanto esiste di più vivo.
Sono passati 90 anni da quando Walter Ruttmann decise di raccontare una città attraverso una partitura visiva incalzante e strabiliante. Berlino era soggetto e oggetto di una vera e propria Sinfonie der Großstadt: un maestoso concerto visivo-sonoro che si sviluppava nel tempo reale che va dall’alba alla notte, cogliendo l’incessante vitalità metropolitana, umanistica e urbanistica al tempo stesso, lasciando che le luci naturali e artificiali della città fossero il filtro per la nostra visione. La città di B./Berlino ci arrivava con tutto il suo splendore e le sue contraddizioni, sostenuta da un verismo lirico che dal documentarismo non aveva paura di sfociare nell’astrattismo o nella grande epopea post-futurista. Sono passati 900 anni da quando Bologna ricevette il diploma di città dalle mani dell’imperatore Enrico V, che riconobbe ai suoi cittadini una qualità più alta rispetto all’essere semplici cives, cioè quella di essere concives. Alla città di B./Bologna nel suo nono centenario Andrea Adriatico ha dedicato Bologna, 900 e duemila, composto da tre diversi spettacoli raccordati in modo unitario, i cui testi sono stati commissionati ad altrettante scrittrici: Porta della Rocca Ostile di Simona Vinci, Bo Bohème di Grazia Verasani e Per amor del cielo di Milena Magnani. Ne è uscita una Sinfonie che, come il film di Ruttmann, coglie la vitalità e le contraddizioni della città con uno sguardo al tempo stesso documentaristico e lirico, umanistico e urbanistico, lasciando che le luci naturali e artificiali della metropoli stessa guidino lo spettatore nella visione. Anzi, nella condi-visione di un’esperienza di viaggio.
Perché, in realtà, la città, poderosa nella sua staticità (“immota manet” è l’antico motto di L’Aquila, città natale del regista, beffato dal tragico terremoto del 2009), baluardo di fermezza rispetto al senso di fluidità dato da altri esempi di consorzi umani – la città, dicevo, è soprattutto un’esperienza di viaggio. Così Ruttmann decide di inaugurare la rappresentazione di Berlino con l’immagine di un treno che arriva alla stazione. Così Adriatico decide di aprire la rappresentazione di Bologna con l’immagine di un folto gruppo di viaggiatori in nero (magari usciti dalla stazione che sta proprio lì dietro), osservati in campo lungo sull’ampia piazza di Porta Galliera, che avanzano lanciando petali di rose e avvicinandosi fino al primo piano degli spettatori, su su fino alla cima della Scalinata del Pincio. Sarà seguendo quei viaggiatori dal Pincio (sede del primo spettacolo) al Giardino del Guasto e infine alla Torre degli Asinelli (sedi degli altri due), che gli spettatori potranno assistere a questa rappresentazione della città di B., partecipando cioè a un viaggio dentro la città. I testi stessi di Vinci, Verasani e Magnani ribadiscono in maniera quasi ossessiva l’identificazione di città e movimento: di questa città e di un certo movimento. Quella Bologna che Francesco Guccini cantava personificandola in “una vecchia signora / dai fianchi un po’ molli” che racchiude i suoi cittadini tra i “portici-cosce”, dunque con un’idea fortissima di staticità e chiusura, viene invece raccontata nei testi delle tre scrittrici, e poi nella loro reinvenzione registica, come una città legata all’idea del movimento incessante.
In Porta della Rocca Ostile Vinci racconta B. con gli occhi di una ragazza – una “creatura di luce” – che arriva dalla provincia e, attraverso di lei, racconta sprazzi della storia secolare della città. Lo spettacolo è allestito sulla scalinata monumentale umbertina che va alla Montagnola: di fronte agli spettatori si intuiscono la stazione ferroviaria oltre Porta Galliera e – pochi chilometri più in là in linea d’aria – l’aeroporto, dal quale si levano aerei in continuazione per tutta la durata dello spettacolo, rendendo potentemente evidente il senso di una città votata al movimento. Le vicende della studentessa fuorisede tra scoperta della vita, desideri e memorie, si intrecciano con la rievocazione di momenti storici e di qualità della città, che lentamente portano a una sovrapposizione tra la ragazza e la città stessa, che dunque ci appare personificata da una giovane migrante fragile ma resistente, che festeggia i suoi 900 anni adolescenti mentre attende alla stazione delle corriere insieme a un gruppo di teppisti che la insediano. Bologna non è una vecchia signora dal fisico sontuosamente ‘emiliano’, ma una creatura di luce esile che incarna il senso più puro del viaggio, dell’immigrazione e del movimento: “Della città le piacevano i varchi”. Del resto, B. sembra coincidere con la sua stazione ferroviaria (quella della strage del 2 agosto), la sua stazione delle corriere, il suo aeroporto da cui continuano a decollare e atterrare aerei mentre il sole inizia a calare tinteggiando di luce la punta delle chiome degli alberi della Montagnola, e infine con i suoi canali che ne fecero una piccola Venezia, dove un tempo esistette anche un porto rievocato ora sul limitare del Pincio bolognese rinominato “Porta della Rocca Ostile”: “L’undicesima porta, che a Oriente, sotto la protezione del segno zodiacale di libertà e indipendenza dell’Acquario accolse uomini e imbarcazioni nel suo porto fluviale, poco distante, e nel tempo, col tempo, ogni nodo di movimento prendeva forma da qui, treni, corriere”.
Gli spettatori sono risucchiati dal movimento, molti di loro ne sono parte in una città che – secondo le statistiche – cambia il 25% della propria popolazione ogni 10 anni: “Sempre arrivano nuove persone nei posti della terra, spingono valigie con le ruote, portano sacche, zaini, borsoni”. Del resto, B. “è una nave”, nelle parole del coro femminile che declama le parole attraverso piccoli megafoni sfidando il rumore incessante di auto, moto, autobus, musiche e schiamazzi sullo sfondo di passanti che indugiano o che si affrettano verso una fermata d’autobus o verso la stazione. Del resto, B. è a “forma di cuore”, con dodici entrate, dodici porte attraverso cui passano altrettante strade, dalle quali entrano ed escono in continuazione le persone. La fine del primo spettacolo, coerentemente, non è una vera fine: i viaggiatori ripartono con i loro trolley tutti uguali, in fila, muti, seguiti dagli spettatori. Il percorso a piedi verso il secondo spazio è parte integrante dell’intero spettacolo, anzi, forse ne è la parte concettualmente più sottile. Non è semplice spostamento, ma messa in scena della città: teatro documentario allo stadio più limpido. Mentre la luce diurna digrada lentamente verso il crepuscolo e il tramonto, seguiamo i sedici viaggiatori e intanto osserviamo il giardino della Montagnola nell’ora in cui si attardano passanti e podisti; Piazza 8 Agosto, sede del grande mercato che si è da poco concluso, e che ora è invasa da cumuli di scatoloni e spazzatura varia, ripulita dai macchinari del Comune che corrono all’impazzata su e giù schivando la colonna degli attori e degli spettatori; le strade strette del quartiere più vissuto dagli studenti, come la studentessa-Bologna che abbiamo conosciuto poc’anzi, fitto di ragazzi dediti all’happy hour e all’apericena, dentro e fuori locali, pub, kebab, trattorie, che osservano straniti l’incomprensibile processione muta.
Si arriva così alla seconda tappa, dove alla vivace coralità del primo e all’ampiezza panoramica si succedono ora – come in un formidabile zoom – il dialogo intimo di due personaggi e l’hortus conclusus del Giardino del Guasto, che, proprio come la precedente location, è una piccola altura che sorge sulle rovine di un palazzo distrutto anticamente dalla furia popolare contro il potere di ricchi e nobili. Il Guasto è un giardino di cemento, chiuso da muri di cemento e dalle case che lo circondano: è qui che prende forma Bo Bohème di Grazia Verasani, che vede protagonista una vecchia pseudo-cantante punk alternativa degli anni 70/80 dal nome Ketty Frega, sfiorita nel ricordo di amici morti o riciclati nel sistema e soffocata dalle nostalgie per una B. che sembra aver rinnegato gli ideali e le azioni di un’epoca libertaria già svaporata. Lei, ormai ridotta su una sedia a rotelle, è accompagnata da uno studente volontario, che rappresenta davvero un altro mondo: il dialogo è tra due mondi distanti eppure disponibili in qualche modo a entrare in rotta di collisione, il mondo di chi sembra vivere nel passato eppure sente con forza la vitalità di una B. che non può tradire, e quello di chi sembra proiettato nel futuro ma è paralizzato da un’apatia ben poco giovanile. Più incontro che scontro generazionale, che assume l’immagine potente di un mezzo di locomozione inusuale: una bicicletta speciale che consente il trasporto di una sedia a rotelle.
L’anziana e il giovane sono parte dello stesso macchinario che dichiara la sua funzione di movimento, ma al tempo stesso blocca entrambi, quasi fosse un cyborg bicipite, un’entità unica – ancora una personificazione della città? – che unisce la memoria e il presente, in una sovrapposizione temporale che ha il fascino di una contraddizione inestricabile. Il ragazzo spinge sui pedali, spostando il mezzo sulla base degli ordini secchi della donna – “Buio! … Luce!” – in una dinamica beckettiana non distante da quel finale di partita che sembra essere la condizione attuale di questa città. Anche qui, come in Beckett, siamo visivamente in una sorta di bunker (a cielo aperto), uno spazio angusto, quasi claustrofobico, dove i movimenti avanti e indietro della bicicletta-carrozzella-cyborg sono falsi movimenti, così come i dialoghi, che parlano di una B. libertaria che non c’è più, di generazioni incapaci di comunicare, di uno stallo sociale e politico incancrenito, restituito come una tragedia umoristica. Sul fondo del giardino che ospita questa strana coppia, che si confida a bassa voce come in un monologo interiore, illuminata a stento dai lampioni gialli del giardino, stanno gli altri viaggiatori, sparsi a piccoli gruppi o solitari, in riposo, a disegnare un paesaggio quasi carpaccesco, dove natura e figure umane si dipanano in misterioso e languido contrappunto. Anche la fine del secondo spettacolo comporta la ripartenza del gruppo di viaggiatori e, a seguire, gli spettatori. Questa volta il percorso è da Piazza Verdi e via Zamboni fino alle Due Torri: il cuore della movida notturna studentesca, che ci viene presentata ancora una volta come un secondo squarcio documentaristico e che rivela, nell’oggettiva epifania della realtà di veri studenti disseminati tra pub, locali e gruppi in strada, quella mutazione antropologica che Bo Bohème ci aveva descritto a voce poc’anzi. Il cammino è ora non solo parte indispensabile dell’intero lavoro, ma chiosa necessaria al dialogo appena ascoltato, estensione reale di un discorso teatrale.
Il viaggio termina, ormai a notte, ai piedi della Torre degli Asinelli, cuore emblematico di B. che Milena Magnani interpreta nel suo Per amor del cielo come materializzazione del secolare sogno di ascesa della città. Ascesa sociale, politica, ideale, capacità di immaginare, desiderare, creare: Babele mai crollata a cui spetta il compito di memento di un fulgore passato che deve ritornare. La torre è oggetto di un’occupazione: dalla terrazza un gruppo di donne scandisce slogan femministi e movimentisti, brandendo fumogeni. Alla base, la Grancontessa reclama di ritornare in possesso della sua torre, circondata dalla Guardiana e dai Cortigiani: medioevo e contemporaneo si intrecciano giocando sul paradosso e creando situazioni comiche. Dagli spazi definiti del Pincio e del Guasto, che allo spettatore richiedono in modi diversi un’attitudine alla ricezione prettamente teatrale, si passa a uno spazio che evoca il teatro di strada e richiede al pubblico un’attenzione diversa: non pubblico di un evento teatrale, ma cittadinanza convocata ad assistere a un netto scontro tra due forze contrapposte, quella delle donne che occupano da dentro la Torre degli Asinelli urlando slogan dai megafoni e quella della corte antiquata e paludata che da fuori reclama il proprio diritto a entrare dentro il simbolo della città e ad ascendere verso altri orizzonti. Storia di uno sgombero di occupanti, come B. ci ha abituato negli ultimi tempi chiudendo centri sociali e case dove avevano trovato rifugio poveri e immigrati, ma storia di uno sgombero inattuato e inattuabile, con i cortigiani che cercano invano di convincere in tutte le lingue le occupanti a scendere e queste ultime che dall’alto dei 90 metri dell’edificio gettano su di loro e sugli astanti gomitoli di lana rossa, chiedendo “che questa torre con le sue basi di selenite torni ad essere / un luogo di fantasie! / Che si rimetta al centro di uno spazio aperto, / dove le infinite direzioni del vivere / si possano spalancare”.
Il crocevia dove sorge la torre è ombelico di un movimento radiale che schizza verso un altrove, che siano l’altezza o la distanza, ma solo idealmente, perché oggi B. “fa il rumore di una barca a motore spento”, altro che nave! E allora, per ridare linfa alla città, per ripartire, ecco snocciolato dall’alto della torre un pantheon che sfugge alle aspettative dell’occasione celebrativa, nomi che hanno rappresentato per Bologna altrettanti momenti di orgoglio per pensieri o azioni da cui occorre ripartire: da Roversi a Pasolini, da Leo de Berardinis a Patrizia Vicinelli, dal giovane anarchico Anteo Zamboni al militante gay Stefano Casagrande, da Francesco Lorusso ucciso dai carabinieri a Irma Bandiera uccisa dai fascisti, da Mario Barbani obiettore di coscienza a Tullio Contiero prete cooperante, dal sociologo Giuliano Piazzi al giuslavorista Marco Biagi. Una cascata di nomi ed emozioni che si materializza in una pioggia di veri e propri ‘santini’ lanciati dalla torre sul pubblico. Un invito a “sfidare le alte quote” che dà senso nuovo all’identificazione di città e movimento che ha caratterizzato l’intero progetto di Bologna, 900 e duemila. Perché B. è una città fluida in orizzontale, come l’evocazione compiuta nel primo pezzo dei canali, delle stazioni, delle porte aveva suggerito; e poi è una città dai movimenti concentrici, implosivi, come aveva mostrato l’immagine della donna in carrozzella nel secondo pezzo; e infine è un città che è chiamata a muoversi in verticale, ad ascendere ripercorrendo le ambizioni di un medioevo che la trasformò in una città turrita come una selva, ma declinate secondo un’aspirazione politica attuale, dove le grandi altezze non si misurano più in metri di mattone ma in chilometri di “mondi liberi (…) diritti indiscutibili (…) rispetto sociale”.
Il film Berlin – Die Sinfonie der Großstadt si conclude con girandole e fuochi d’artificio, mentre dall’alto dell’imponente Torre della Radio, inaugurata soltanto l’anno prima, si irradia un potente raggio di luce. La trilogia della città di B., dal titolo Bologna, 900 e duemila, termina con i fumogeni accesi sulla Torre degli Asinelli, da cui si irradia una richiesta luminosa alla città, mentre questa si affretta verso il futuro, correndo in taxi, in autobus, in auto, in bici, a piedi… e pur sempre in movimento.
lo spettacolo itinerante ideato e diretto da Andrea Adriatico, per festeggiare i 900 anni dalla fondazione della città felsinea, celebratosi lo scorso 15 maggio. La proposta artistica, basata sui testi di tre scrittrici segnate da un profondo legame con la città bolognese, si è sviluppata secondo tre tappe-azioni teatrali con il coinvolgimento di sedici interpreti: Porta della Rocca Ostile di Simona Vinci, in scena alla scalinata del Pincio, a Porta Galliera; Bo Bohème di Grazia Verasani, ai Giardini del Guasto; Per amor del cielo di Milena Magnani, nella centralissima Torre degli Asinelli.
L’operazione di Adriatico ha così invitato gli spettatori ad abitare e ad attraversare i luoghi della città, intendendoli come anime pulsanti: “un grande cuore che racchiude al suo interno tanti altri piccoli cuori fatti di ginocchia sbucciate, di saperi, di desideri, di sogni”. Fulcro nevralgico dell’intero progetto è dunque una storia della città “messa in cammino”, al fine di generare una riflessione attorno al senso dell’essere, oggi, concives. Uno sguardo per certi versi estendibile al significato generico dell’essere parte di una città, in un’epoca contemporanea sempre più liquida, per ricercare le voci di chi, nel tempo, ne ha costituito forme e significati; e per interrogare chi ne traccerà sviluppi futuri.
Protagonista della Porta della Rocca Ostile, prima tappa del tour itinerante, una narrazione-flusso che ripercorre la storia della città bolognese, alternandola al racconto della vita di una giovane donna, “la creatura di luce”, giunta nella città felsinea per inseguire un mondo fatto di “portici e chitarre”. Accompagnati da un corteo di viaggiatrici, a cui si aggiunge un corteo di uomini, si ripercorrono, per frammenti, i principali eventi storici della città, dall’epoca in cui i canali di Bologna erano navigabili, agli attacchi austriaci, alla Strage di Ustica e alla Strage della Stazione. Il luogo cambia continuamente volto: si rende scudo e barriera con i fucili puntati nei confronti degli invasori, trasformandosi poi nel primo scenario scorto dalla donna, appena arrivata in città. La giovane raccoglie da terra un libro rosso, forse un piccolo atlante: reca frasi, parole e pensieri scritti dai passanti che hanno attraversato quel luogo prima di lei. “È ancorata alla terra da chi la abita e da chi l’ha abitata. È ancorata dai segni di chi ne diverrà abitante” grida una viaggiatrice, mentre sparge a terra alcuni petali.
Bo Bohème, ai Giardini del Guasto, vede invece in scena Lucia, nome d’arte “Ketty”, una anziana cantante costretta in una sedia a rotelle, e un giovane studente iscritto al Dams, che la trasporta da una parte all’altra del parco con una curiosa moto-biciletta a pedali. Lucia racconta i ricordi della sua “bohème”: prendono così forma le immagini di un passato “glorioso” degli anni Settanta e Ottanta, quando si scendeva in piazza, ci si drogava “nei tempi del candore e della paranoia”. Il racconto della donna sottolinea per contrasto la distanza con la Bologna contemporanea, vittima del presente, e di un’ immobilità che il giovane studente incarna alla perfezione: non sa dire né cosa vuole, né sa motivare la scelta dell’essersi iscritto al Dams. Il ragazzo, continuamente rapito dallo schermo luminoso del suo smartphone, pare privo di volontà e di direzione mentre dirige il movimento della moto-bicicletta. È la donna trainata, invece, a imporre il tempo del racconto: solo l’ordine di Lucia che recita continuamente “luce” e “buio” (quasi a richiamare una certa alternanza tra giorno e notte), determina la direzione dei due. Sono esistenze abbarbicate nei paradossi di epoche distinte: da un lato, l’illusione di un’emancipazione rivoluzionaria; dall’altra, il tempo della disillusione, in cui nulla pare possibile. I due dialogano, ridono, si divertono, diventano amici e si cullano nelle loro contraddizioni.
Per amor del cielo, terza e ultima tappa, si compone come un continuo rimando tra “alto” e “basso”. L’azione consiste nel tentativo, da parte di una gran duchessa di riconquistare la cima della Torre degli Asinelli per scacciare “i ribelli” che l’hanno costretta a restare in basso. Sforzo destinato a restare vano: gli invasori, posti sulla balconata della torre, non si placano, promettono di non abbandonare più quel luogo perché di “loro appartenenza”. Lottano in nome di chi, metaforicamente, ha lasciato traccia tra le pietre dei portici bolognesi: sui foglietti che fanno piovere dal cielo alcuni dei loro paladini: ci sono Laura Bassi, Francesco Lorusso, Umberto Eco, Giuliano Piazzi, Patrizia Vicinelli, Leo de Berardinis, insieme a molti altri. A conclusione dello spettacolo, restano sparsi per terra i foglietti destinati a confondersi con quel luogo, mentre nuvole di fumo rosso e blu si spargono al di sopra della torre: gli spettatori si fermano, li osservano e ne prendono qualcuno, quasi avessero scoperto un tesoro del tutto inaspettato.
Non stupisce che un progetto articolato come quello proposto con Bologna 900 e duemila costruisca la propria trama drammaturgica in viaggio: c’è il dichiarato intento da parte del regista di mettere in relazione non solo gli universi disegnati nelle tre tappe, ma di porre il pubblico nella condizione diagire i luoghi in transito. Lo spettatore è dentro ma è anche fuori; si trova ad abitare una micro città nella città, come un puntino sparso nella frenesia; è parte di un corteo che interroga, interrompendolo, il consuetudinario; è lo strappo, è la lente, è la domanda destinata a non esaurirsi ma a girare continuamente su sé stessa.
Parallelamente, i testi delle scrittrici bolognesi offrono sguardi distinti per raccontare la città felsinea. Tutti, in maniera diversa, riflettono una certa idea di circolarità e di apertura: se le radici storiche di una Bononia anticamente navigabile sono la base da cui partire, scoprendola attraverso gli occhi di una “creatura di luce” continuamente in viaggio, il movimento ondivago e imprevedibile di una moto-bicicletta espone i paradossi del vivere Bologna oggi, per sfociare poi in una simbolica presa collettiva della torre che, anziché divenire traccia di un modo d’essere, evidenzia il transito simbolico delle epoche per aprire la via al futuro. Diventa chiaro allora, come sia proprio la “creatura di luce”, partita dalla scalinata del Pincio, a inglobare tutti, viaggiatori, passanti, studenti, lavoratori, disoccupati, sognatori, disillusi: sono le persone, sono gli spettatori in cammino a essere il filo che si dipana da una parte all’altra della città per raggiungere i luoghi che recano le trame delle epoche, del loro costituirsi e del loro rendersi come tali.
“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda” recita un passo delle Città Invisibili di Italo Calvino.Bologna 900 e duemila richiama per certi versi la città come intreccio, come trama che svela ma che al tempo stesso occulta. Lo spettacolo itinerante lascia la parola alle voci di Bologna e alle risposte che, nel tempo, uomini e donne sono riusciti a trasformare nelle tracce visibili della stessa. Ma non si ferma qui: perché al mostrarsi di quelle stesse risposte, la proposta artistica di Adriatico alimenta ulteriori interrogativi attorno a quel che resta inesplorato, incompiuto o atteso. In altre parole, Bologna 900 e duemila lascia aperta la via alla ricerca. Il transito, un’altra volta ancora, ne traccerà il divenire.
Bologna, 900 e duemila. Il teatro il racconto la città
Si sale la scalinata del Pincio, al lato dell’autostazione. Ci si siede di spalle alla Montagnola, sostando in un luogo solitamente di passaggio, notando dettagli nuovi. Da sotto salgono i beat dell’aperitivo della velostazione, girando lo sguardo si scorgono muri decorati da un progetto di streetart, il traffico è un flusso terra-aria di autobus, motorini, macchine, aeroplani in atterraggio. Il teatro abita questo brulicare, lo sottolinea chiedendoci la sua attenzione.
Il primo episodio di Bologna, 900 e duemila, spettacolo in tre parti prodotto nel contesto delle celebrazioni del nono centenario del Comune, per la regia di Andrea Adriatico, è titolato Porta della Rocca Ostile ed è firmato da Simona Vinci, scrittrice che nei suoi libri ha saputo descrivere le intimità della giovinezza e dell’infanzia. Vediamo arrivare da Piazza di Porta Galliera un gruppo di uomini e donne col trolley, viaggiatori e viaggiatrici che nelle tre ore dello spettacolo ci accompagneranno lungo tre diversi episodi legati alla storia di Bologna. Salgono le scale, una ragazza si accascia a terra, è la «creatura di luce» (Selvaggia Tegon Giacoppo). Altre donne racconteranno come narratrici onniscienti le vicende della ragazza, amplificandosi con dei piccoli megafoni che conferiscono alle voci una grana da sala d’aspetto. L’idea del passaggio è al centro di questo primo pezzo: la creatura di luce studia, ha una stanza in affitto, assiste alla contrapposizione fra poveri e ricchi, fra popolo e clero che in passato ha dilaniato la città; diviene una popolana che contribuisce alla liberazione dagli austriaci nei moti risorgimentali, infine viene minacciata da un manipolo di uomini. In Bologna, 900 e duemila la città viene descritta come fosse cuore, con le strade e i canali a fare da arterie, un «morbido pugno» con dodici entrate dove tutto passa e scorre, dove però si può tentare uno sguardo in cerca di una compresenza con le vite passate, con le biografie di chi non c’è più immaginando quelle di chi verrà. Ora la ragazza è in piedi, maneggia un quaderno dove sono appuntati i desideri della città, l’andamento si fa trasognato ma anche concretissimo, è lo sguardo di chi sa tenere insieme difficoltà, battaglie, immaginazione (a Bologna c’è mai stato il mare?), lo sguardo di chi sa che tutto passa e per questo tutto è da ricordare, tutto da dimenticare.
Dopo il primo episodio, Bologna, 900 e duemila prosegue accompagnandoci verso i giardini del Guasto. Si attraversa la Montagnola e Piazza dell’8 agosto, entrando in zona Universitaria da Via delle Moline. Il giardino di cemento al crepuscolo è vuoto, ci sistemiamo su una fila di sedie, sul fondo giacciono tutti i viaggiatori appoggiati ai saliscendi grigi del suolo. Di fronte a noi una donna (Olga Durano) cresciuta nella Bologna punk degli anni ’70 e ’80, quando nel giardino si trovavano siringhe e Rimbaud. La donna di Bo Bohème, secondo episodio scritto da Grazia Verasani, sta seduta in una carrozzella sistemata su una bicicletta per disabili, manovrata alle sue spalle da un “giovane d’oggi” tutto silenzi e smartphone. Il vuoto di questi odierni Hamm e Clov s’incunea in un ritratto generazionale stereotipato, che ricorda le ricorrenti lamentazioni di adulti con vene passatiste di fronte alla presunta abulia dei giovani nati negli anni ’90. Il capitale che ha tutto mandato in vacca, «ai nostri tempi eravamo disperati e creativi», «Ai tuoi tempi c’erano i punkabbestia?» «No, c’era Autonomia operaia», dunque le speranze, le utopie, i desideri che un tempo erano così pressanti mentre adesso s’infrangono nei pixel dei display disegnati a Cupertino. Fino a riscoprirsi uniti, sul finale, in un disincanto che si rifugia in Prévert ed è ancora in grado di guardare al futuro con speranza. La regia e i semitoni recitativi edificano per noi un’intimità credibile, capace di trasfigurazione, basta una lieve amplificazione e davvero ci pare di tornare a quando eravamo studenti, anche noi al Guasto a discutere di teatro e di futuro. Ma la natura iperbolico-grottesca di questi personaggi, la caratterizzazione che scolora ogni sfumatura ci pare rischi di fare lo stesso gioco della stasi che si vorrebbe mettere in discussione.
Giunti sotto le due torri inizia il terzo episodio, Per l’amor del cielo di Milena Magnani. Seguiamo le gesta di una contessa e del suo girovagare di fronte a un arco di folla che sì è radunata, seguita da una corte di paggi e da un dignitario. Sul parapetto del terrazzo della Torre degli Asinelli si sporgono le donne che avevamo visto nel primo episodio. Hanno occupato la torre, protestano rievocando lotte partigiane e battaglie di emancipazione, gridano slogan, elencano le molte torri che sono state abbattute, da quella di Radio Alice alla torre della streetart e delle periferie libere. Chiedono che il diritto a guardare in alto e a edificare immaginazioni sia concesso a tutti, non solo a una élite aristocratica. Piovono dal cielo matasse di fili rossi e santini che ritraggono figure di artisti, di inventori, di visionari dalle cui biografie è necessario apprendere per rimettere in movimento la città: il Monari che scalò le torri a mani nude, il Marconi inventore della radio, la Masina Giulietta degli spiriti, il de Berardinis del Teatro di Leo (e di Novecento e mille, spettacolo al quale il titolo di questo si richiama). E tanti altri. Sotto al coro delle occupanti, che urlano al megafono, conduce le “trattative” una strepitosa Francesca Mazza (spalleggiata da Eva Robin’s), altolocata deuteragonista che mobilita l’attenzione di un racconto che si fa vero e proprio teatro di strada, modellandolo con richiami vocali che attraggono i passanti, intersecandosi nella folla e per tratti abitando lo spazio “nudo” e non protetto della via Ugo Bassi. Siamo pronti per il finale: Per amor del cielo, Bologna, ricomincia a sognare! Torna a «sfidare le alte quote!» Ci salutiamo felici e contenti? In parte sì, in parte no.
Torniamo a casa dopo un tentativo, raro di questi tempi, di sfidare la città, di interrogarla, di abitarla da una prospettiva che esce dagli edifici teatrali per abitare uno spazio aperto, a tratti non garantito. Sotto alle torri si crea un capannello di persone incuriosite, attratte dal momentaneo sovvertimento del panorama consueto. Non si tratta però dello stand di una radio commerciale o del camion tv di un reality, come è ormai naturale nei centri storici delle nostre città, ma di uno spettacolo teatrale, che sceglie per giunta di “fare nomi” di figure non allineate, poco note al grande pubblico. Poco per contrastare lo spirito dei tempi, per metterlo in discussione? Forse, ma di controcultura in giro non ne resta ormai che qualche timido bagliore, spesso in coda per l’aperitivo. Va detto che importanti segnali in tale direzione, sempre a Bologna, li abbiamo avuti anche di recente, con il concerto di Winter Familiy organizzato da Ateliersi alla Chiesa dei Santi, con i progetti dell’Itc Teatro qualche anno fa in Piazza Santo Stefano, o con le peregrinazioni pasoliniane di Archivio Zeta. Progetti da sostenere.
Dopo Bologna, 900 e duemila si può discutere allora su quale immagine possiamo dare di noi, per capire come ci raccontiamo, per dibattere su come sfidare gli spettatori, anche quelli del tutto ignari e distanti. Ci sembra sempre più urgente chiedersi collettivamente come incontrare nuove persone, come condividere le nostre persuasioni, in cerca di una delicatissima misura che permetta di evitare sia un’inerte autoaccondiscendenza sia una sterile provocazione. Vogliamo rispecchiarci, nel teatro e nei suoi discorsi? Troviamo che sia un’occasione per conoscere? Vogliamo vedere confermate le nostre convinzioni? Possiamo ancora considerare il teatro come una rivelazione, un incontro con qualcosa che non avevamo previsto o pensato? E questa rivelazione può avvenire ormai solo per noi che guardiamo e che “facciamo” o anche per i tanti altri che del teatro non se ne fanno nulla? Anche grazie alla sua natura di autobiografia di una collettività, ci pare che Bologna, 900 e duemila abbia saputo trovare un equilibrio fra tali questioni, ora confermando aspettative e stereotipi ora spaesandoli e discutendoli, con leggerezza. Insomma ci ha posto alcune domande sulla città, sul nostro sguardo, sull’arte.